Cari Soci,

Citando Elrey B. Jeppesen, c’è grande differenza tra piloti e aviatori. Il pilota può essere un tecnico, l’aviatore è un artista innamorato del volo. Per questo motivo noi costruttori amatori di aeroplani tendiamo a dare dignità a ciò che realizziamo, così come diamo importanza a cose evidentemente desuete come la licenza di pilota, seppur negli ultimi decenni essa si sia trasformata da un elegante documento a libro protetto da custodia con la dicitura “licenza di pilota civile”, in un foglietto striminzito, stampato a corpo da bugiardino, che si ripiega quattro volte prima di assumere un formato tascabile, sul quale non compare più neppure la parola “Pilota”. Sono certo che “Licenza di equipaggio di condotta” sia una definizione approvata dall’Accademia della Crusca, ma dopo “petaloso” e “architetta” nulla più stupisce. Vi dirò, mi sto preparando a essere definito “giornalisto” e “piloto”, stante il propagarsi irrefrenabile di questa sottocultura. Sia chiaro, nel caso della Licenza non si pretende l’esaltazione di un oggetto che comunque rappresenta il coronamento di notevole impegno e la spesa di decine di migliaia di euro, ci basterebbe però qualcosa di dignitoso, magari con astuccio (ecologico e sostenibile), un documento definibile tale, disegnato da un professionista della grafica e, grande pretesa, con l’effige di un pioniere italiano dell’aviazione laddove gli americani mettono i fratelli Wright. Nulla da fare: dopo aver sperimentato la licenza smaterializzata per i piloti d’aliante, entro breve tempo anche tutte le altre, dalla Lapl al Cpl, smetteranno progressivamente di esistere in forma fisica per assumere quella di una specie di Codice QR, conservato nel Cloud (leggi, il computer di qualcun altro), che ci stamperemo da soli una volta ricevuto via Pec. Non so voi, ma l’idea che i titoli aeronautici e i relativi dati personali che ci riguardano siano simili al menù dei ristoranti, a mezzo chilo di finocchi del supermercato o dei codici pubblicitari che trovate sulle confezioni dei biscotti non mi fa impazzire. Piango all’idea che eravamo il Paese dell’eleganza.

A pensar male si fa peccato, la digitalizzazione incalza e quindi è consentito tremare al pensiero che anche i Permessi di volo, le famigerate licenze Lesr e altra documentazione potrebbe presto fare la stessa fine. Per dirla tutta, non nascondiamoci dietro l’ecologia e al risparmio di carta, perché non credo nella possibilità che in tutti gli aeroporti ci sarà presto un lettore digitale che, riconoscendoci dal codice “stile biscotti”, faccia automaticamente tutte le pratiche e addebiti anche le tasse d’atterraggio. Invece, già immagino gli infiniti guai di chi, per un quadratino illeggibile o per avere la grave colpa del telefonino scarico, non potrà dimostrare di essere current, avere il medical valido o il Sep rinnovato. Sarà una stagione di grande fermento, con momenti della vita degli appassionati piloti (pardon, equipaggi di condotta), che meriteranno la rappresentazione teatrale. Già si paga online e chi non ha lo Spid o la Carta d’identità elettronica, peste lo colga, già facciamo da soli le scansioni dei documenti e li inviamo in formato “Pdf” alle Direzioni aeroportuali; tanto vale allora far cadere ogni tabù e rinnovarci le licenze da soli. Del resto, non esiste alcuna norma EASA che preveda che il rinnovo del “Sep” non possa essere fatto sul proprio aeroplano e con l’opera di un CRI (Class Rating Instructor) che debba giocoforza appartenere a una ATO o a una DTO. Basterebbe che i soci CAP possessori di abilitazione CRI si mettano a disposizione degli altri, facessero insieme la loro “One Hour Training” e poi ne parlassero innanzi a una birra. Soddisfando anche la nuova materia EASA definiti KSA100 (Knowledge, Skill & Attitude). Così, smaterializzati e felici, non avremo più bisogno di nulla e nessuno. Soltanto una domanda mi perseguita: se facciamo tutto noi, perché dobbiamo pagare l’ENAC più d’un centinaio di euro?

Sergio Barlocchetti

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